Berselli e Veneziani, gli astratti disgusti di chi odia il ’68

di David Bidussa

Il ’68 è un argomento che attrae. Così anche per chi lo avverte come un incubo. E’ quanto meno curioso che i primi due testi sul ’68 (un argomento su cui – è facile prevedere – verranno prodotto libri, numeri monografici di riviste – DVD, speciali televisivi e radiofonici…) siano di due autori che se ne sentono decisamente lontani. Si tratta di Marcello Veneziani (Rovesciare il ’68. Pensieri contromano su quarant’anni di conformismo di massa, Mondadori, 176 p., € 17,00) e di Edmondo Berselli (Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ‘68, Mondadori, 180 p., € 16,50).

In entrambi i casi il tema di partenza, non dichiarato, ma che lavora nel sottofondo è il rifiuto dell’immagine prodotta da La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. Ovvero l’immagine di un’Italia migliore, che cambia radicalmente il volto del Paese: da Paese di provincia a paese inquieto, adulto, messo alle strette dalle molte prove di fuoco e dalle emergenze sociali, politiche, istituzionali.

Marcello Veneziani e Edmondo Berselli propongono due differenti letture e rivendicano una interpretazione della generazione ’68 come incidente della “storia” da cui sarebbe molto meglio fuoriuscire. Per entrambi, pur partendo da una diversa visione della società italiana, il ’68 è un “intruso”.

Marcello Veneziani risolve la questione del ’68 nel conflitto tra figure astratte. La società che racconta Veneziani non ha date eventi, conflitti, contraddizioni. Descritta con una scrittura brillante – anche se eccessivamente compiaciuta di se stessa – l’Italia che Veneziani propone è la storia di maschere ciascuna con una sua caratteristica, soprattutto immodificabile (come nel teatro dell’arte). E’ quella di Veneziani una versione mitogenica – dove dunque non è richiesta l’argomentazione, la dimostrazione, il confronto con fonti, documenti, testi – dove non c’è una sequenza, ma un insieme di figure. In breve un’allegoria, un affresco fermo in cui appunto non c’è la storia.

Una visione ideocratica della realtà che si costruisce attraverso figure astratte che rappresentano idee che si affermano o si sconfiggono con altre idee. La vicenda è la parabola di un paese con un’etica, con una idea precisa e condivisa della gerarchia, caratterizzata dalla fedeltà alla “Tradizione” (una cosa che per Veneziani non è non un insieme di pratiche, ma un corpo ideologico e dunque è un principio formativo, secondo una visione in cui non c’è la storia, il Paese reale, ma un Paese metafisico). Un Paese che si troverebbe oggi esiliato, in minoranza, costretto a nascondersi o a camuffarsi e da cui si guarisce solo ritornando al punto di partenza.

L’interpretazione proposta da Berselli, invece è quella di una società proiettata in una nuova stagione di sviluppo tra anni ’50 e anni ’60, felice, sostanzialmente fiduciosa del domani e poi improvvisamente travolta da un’ondata di militantismo infelice, di etica dell’obbligo, comunque di “impegno” castrante (l’esatto opposto dell’immagine che diffonde di sé), liberatorio solo nelle parole che propone non nel vissuto che profondo. Un evento che trasforma radicalmente un Paese da luogo dello svago a luogo “plumbeo” dove la figura del militante politico è coercitiva e uccide la fantasia, elimina l’idea di tempo libero, di leggerezza, comunque di diritto alla felicità sostituendola con l’etica del sacrificio (impegnati oggi per essere felice domani).
In entrambi i casi il ’68 come “maledizione”.

Ma verrebbe anche da chiedere: Che idea aveva la società italiana del mondo, prima del ’68 e quale dopo il ’68? Quale la differenza tra città e campagna prima e dopo? Che cos’è stato prima e dopo scoprire e vedere o leggere la musica, l’arte, il teatro, il cinema? Quanto è servito avere una conoscenza diffusa di una lingua straniera? Riflettere sul ’68 , ammesso che si stabilisca che quello è il momento che segna i mutamenti che hanno un diretto rapporto con la nostra realtà quotidiana, significa interrogarsi su come cambiano le società.

In ogni caso sia che si voglia fare un’analisi storica o proporre una riflessione politologica o antropologica occorre misurarsi con i fatti. Le proprie angosce o le proprie nostalgie, anche se scritte con un italiano brillante, non sono fatti. Al più li creano, o li inventano per poi, come in questi due casi, invitare a distruggerli. Un puro esercizio estetico. Al massimo un tiro al bersaglio. Va bene per rilassarsi e far finta di riflettere sui massimi sistemi. Non serve se si vuol capire e riflettere sulla realtà concreta
(da il Riformista, 30 gennaio 2008)

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