Maurilio Riva, Il sogno inverso di Tito Biamonti

Venerdì 18 gennaio 2008 h. 18.00
Maurilio Riva presenta
Il sogno inverso di Tito Biamonti
Vite di partigiani fra storia e letteratura
Introduce Massimo Achille Bonfantini, già Docente di Semiotica al Politecnico di Milano
presso Libreria Equilibri (Milano) – via Farneti 11, Milano
(MM2 Loreto/ Piazza Argentina)

Partigiani e scrittori al vaglio di un (letterario) gioco di specchi
di Attilio Mangano

La scelta di mettere a fuoco le vite parallele è uno di quegli espedienti che consentono al romanzo moderno di instaurare un gioco di specchi, di rimandi, di luci e ombre, vero e proprio esercizio di bravura che ama nutrirsi di un montaggio di tipo cinematografico dei diversi tempi. In questo senso si tratta di un’operazione della memoria che si nutre di rotture della concezione “lineare” del tempo come susseguirsi progressivo, instaurando una temporalità multipla in cui il passato e il presente, il visibile e l’invisibile, il ricordo e il sogno, si mescolano.
Maurilio Riva, autore de Il sogno inverso di Tito Biamonti (vite di partigiani fra storia e letteratura), ha voluto in tal modo cimentarsi sul sentiero originale di un possibile punto di incontro tra romanzo psicanalitico e biografia politica di vite partigiane, re-interpretazione letteraria e congettura e credo si possa riconoscere che il tentativo è riuscito. Considerando che si tratta di una “opera prima” (anche se il nostro autore tiene nel cassetto molti altri romanzi e racconti) e che Riva arriva a scoprirsi scrittore in una fase già matura della sua vita, dopo aver fatto per trent’anni e più l’operaio prima e il tecnico informatico dopo in una impresa di telecomunicazioni, non si può che rimanere ammirati nei confronti di una impresa scaltrita e ricca di incastri, esplicitamente ambiziosa.

Di cosa parla il libro di Riva? Qual è la sua “trama”? È la storia di tre vite parallele, due storie di partigiani e di un io narrante che è lo stesso autore. Per questo va subito chiarito che non si tratta di un romanzo da far rientrare nel genere “letteratura partigiana sulla Resistenza”, anche se essa rimane il sottofondo storico. In questo senso non si tratta nemmeno di una epopea, per cui il sottotitolo “vite di partigiani fra storia e letteratura” e la stessa foto di copertina possono, non dico trarre in inganno, ma dare l’impressione che il tema centrale sia la lotta partigiana. Si tratta certo di due biografie di partigiani: Tito (alias Italo Zanotti, partigiano garibaldino, conosciuto personalmente dall’autore) e Giovanni Federico Biamonti (pseudonimo di un partigiano “azzurro”, dietro cui si cela lo scrittore Fenoglio, autore di celebri romanzi di letteratura partigiana). Ma è proprio a questo punto che le vite parallele si intrecciano e si pongono in qualche modo l’una in rapporto all’altra, come appunto un sogno inverso.

Tito (Italo Zanotti) vive un’infanzia che lo marchia e lo rende irriducibile a ogni sorta di ingiustizia “C’è un episodio che viene sussurrato in Casa Zanotti – in forma imbarazzata e allo stesso tempo compiaciuta – che riguarda i due gemelli in età scolare. Liberato viene rimproverato fuori misura dalla maestra elementare tanto da scoppiare in lacrime incontenibili. Italo adolescente – un Robin Hood di soli 9 anni – nottetempo si reca presso l’abitazione dell’inclemente educatrice e le sbraita in puro dialetto invoriese minacce e insulti acciocché non si permetta più di angheriare il fragile gemello. Italo, è ovvio, non la passa liscia e viene sospeso dalla frequenza scolastica per un non breve periodo”. Fenoglio a sua volta è un eterno fuori-gioco, un sognatore e un solitario. Per lui i riferimenti letterari e simbolici di Riva sono conclamati: “Giovanni Federico Biamonti è stato partigiano nel medesimo modo in cui era scrittore: tenendosi fuori dal coro. […] Ettore illeso di una Troia inespugnata, Chisciotte lancia in resta contro i mulini di eventi rovinosi e fatali, Cyrano nella condotta morale e, suo malgrado, per una lampante stranezza fisica. Splendido Robin Hood in strenua lotta contro dispotismo e disgusto. Impavido Odisseo, trasnavigatore di isole e fondali di mari pliocenici, percepitosi spesso nel settore sbagliato della parte giusta e quasi mai sintonizzato con il contiguo genere umano”. E infine l’io narrante, che congiunge le due vite parallele, ricerca e trova in entrambe le solitudini dei due partigiani una diversità che ha bisogno di esplodere e di fare i conti col mondo: “C’era un mondo da cambiare. La letteratura poteva aspettare. Il mondo non é cambiato. È stato più forte della nostra generazione. Ci ha mutati in peggio triturando i nostri sogni. Ci siamo sentiti vuoti, svogliati. Accade, a quanto pare, dopo l’accensione di grandi speranze che risultino inevase. I più mefreghisti hanno fatto le spallucce all’immutato globo e, scendendovi a patti, si sono ricollocati alla meglio. Altri no, io fra questi. Per vivere bisognerebbe sbattersene dei sogni oppure tenersene avvinghiati, se non si può farne a meno. Li siamo andati a cercare dov’erano, dentro i libri”.

Il gioco di specchi continua, perché Riva immagina che lo stesso Fenoglio sogni di guarire dalla sua malattia e di immaginare un futuro. Non è dunque solo una storia biografata di due partigiani comunque affini o simili nel loro rapporto con la stessa Resistenza, intesa come momento-chiave di una vita e al tempo stesso momento che si stacca dalla leggenda e dall’epopea. Non é il coro, la leggenda, la mitologia, l’eroismo, che conta. Perché entrambi sono in questo senso “fuori dal coro” e, se è vero che l’esperienza partigiana rimane momento cruciale della loro biografia, quello che conta è il non detto, il non saputo, il lato segreto e il vissuto. Per questo all’inizio del libro viene citato Elias Canetti : “Una biografia è misteriosa come la vita di cui parla. Una vita esplicita non è stata una vita”.

Siamo in presenza dunque di un uso del percorso biografico che non segnala l’impresa ma l’io dei protagonisti, al crocevia tra storia pubblica e storia privata. Questo è il punto di partenza o, se si vuole, anche l’avvertenza necessaria per inquadrare la lettura stessa e per imparare a riconoscere i diversi piani, ma naturalmente a questo punto la trama non conta più mentre conta la capacità narrativa dello scrittore e il suo ritmo, l’incastro dei tre diari può a prima vista complicare la lettura ma serve ad operare connessioni.

In questo senso può valere anche porsi la domanda se il romanzo di Riva sia un vero romanzo o un anti-romanzo, un modo per coniugare tempi e figure alla luce di una messa a fuoco dell’antieroismo dell’eroe moderno (nella copertina vengono fatti i nomi e gli esempi di Chisciotte, Cyrano e Robin Hood). In fondo, come è noto, l’Ulisse di Joyce compie il suo viaggio tra le strade di una città nella vita quotidiana e i nostri eroi partigiani sono sì “in strenua lotta contro dispotismo e disgusto” alla maniera di Robin Hood, ma anche coloro che si percepiscono “nel settore sbagliato della parte giusta”. L’ambizione di Maurilio Riva è esplicita e il suo gioco su più piani caratterizza l’originalità della scrittura, che può appunto trovare ragioni di interesse non solo letterarie ma anche di antropologia politica e di sottintesi psicanalitici, fino a esplicitare anche un livello dichiarato di polemica interpretativa storico-critica sul “caso Fenoglio”.

Il libro di Riva è in fin dei conti un omaggio alla grandezza del Fenoglio scrittore in attenta e acuta polemica con le malevolenze di una critica che continua a collocare lo scrittore piemontese come uno scrittore minore e a rimproverargli aspetti secondari (qui Maurilio Riva prende come bersagli financo alcuni mostri sacri come Pasolini e Fortini per documentare come la loro stessa acrimonia critica sia segno di supponenza interpretativa). Ma ovviamente non è un saggio di storiografia letteraria, anche questa parte ha il suo posto e si manifesta a sua volta come una parte decisiva per la comprensione e l’interpretazione di tutto il romanzo, è dunque un pezzo del mosaico e il lettore deve saper cercare dentro il labirinto i percorsi chiave e le vie d’uscita. Dato il tema, lo si è già notato, si potrebbe anche accomunare il testo al genere “letteratura della Resistenza” perché esso ha tutti i titoli per rientrare nella classificazione e nell’essere segnalato anche come un romanzo sulla guerra partigiana, una ripresa di un filone che ha i suoi classici e i suoi ritorni. Ma a patto di tener fermo il riferimento al gioco di specchi di cui si parlava all’inizio.

Fino a che punto dunque questa molteplicità di piani e di connessioni costituisce il merito di fondo dell’opera o ne rivela il limite? Io credo che solo un lettore malevolo o un critico trinariciuto e perfezionista possa soffermarsi a segnalare questi eventuali eccessi o parziali difetti come prova di un’opera mancata, al contrario bisogna segnalare non solo il coraggio dell’impresa (la scelta stessa di un multiversum storico letterario, psicanalitico, politico e culturale) ma la sua originalità di impianto e ricchezza di passaggi. Non credo sia facile oggi che un romanziere si lanci così appassionatamente nella costruzione di una sinfonia a tempi diversi come questa e di un lavoro sulla memoria che non si limita all’emozione dei ricordi, ma fa della memoria un grimaldello per capire meglio che “un evento vissuto è finito, uno ricordato è senza limiti”.

(da Intellettuali/Storia, 10 Novembre 2007)

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