Un sogno operaio

di Maurilio Riva

Quel reparto in quanto tale non esiste più, fisicamente, da molti anni. Svuotato di impianti e di persone è stato trasformato in un magazzino di approvvigionamenti della linea Ut.
A regime, lì dentro, nel grande salone centrale lavoravano a turni oltre 1500 persone: attrezzeria, macchine a controllo numerico di tipo transfert, trapani, trance, presse, piegatrici, torni semiautomatici, frese, puntatrici, torni automatici, banchi di controllo, banchi di montaggio.
Ai lati del grande capannone, la termoplastica, la manutenzione, la galvanica, il magazzino.
Era la prefabbricazione, il cosiddetto Prefa, reparto delle produzioni meccaniche necessarie alle centrali di commutazione di tipo elettromeccanico.
Eppure dagli stessi anni, anzi no, dapprima, nottetempo ritorno di frequente in quel grande capannone, alla ricerca della mia sala di torni e di frese, la mitica 1148.
Ho sempre il patema d’animo di come verrò accolto, manco ormai da tanti anni e i miei compagni di lavoro sono sempre lì, laboriosi e caciaroni, accanto ai loro torni. Mi guardano, mi sorridono e mi salutano e mai che da una voce salga un rimprovero, una presa in giro. E’ rarissimo che io mi fermi, lambisco i confini del reparto e poi mi allontano per risolvere qualche problema.
Loro non chiedono mai nulla, sanno che le novità – se ci fossero – gliele avrei già contate da me. La garanzia per loro è che io ci sia e che mi ricordi della loro esistenza.
Mi è successo, per la prima volta, che un operaio senza volto mi contasse il suo sogno dentro il mio sogno. Mi ha invitato nel suo laboratorio, una stanza con finestroni, e banchi di lavoro appoggiati ai muri opposti su cui c’erano gli strumenti del mestiere, un grosso impianto in metallo di colore verde ne completava la gamma.
L’operaio che mi ha accolto era in tuta, giacchino e pantaloni blu. Non mi ha raccontato del suo specifico lavoro e della mansione che era chiamato a svolgere. A occhio e croce, poteva avere la qualifica di operaio specializzato provetto o, addirittura, di categoria speciale.
Al mio interlocutore premeva raccontarmi un’altra storia.
Debbo ammettere che tutto era un po’ sfumato e la mia attenzione era stata subito attivata dalle pareti su cui erano appese delle teche in legno strette e lunghe dentro cui faceva impressione una lunga sfilza di cd musicali con tanto di copertine, contrassegnati da un numero progressivo. Di questo mi voleva parlare e me ne parlò.
Lui suonava la chitarra, con una certa maestria, da molti anni ormai. Ogni anno sfornava un cd a proprie spese e questo avveniva da ben 17 anni. Nel suo carniere ne aveva una ventina, la sfasatura era spiegata da cd speciali per speciali occasioni e da un “greatest hits”.
L’operaio ogni anno, da 17 anni anni, invia il suo cd all’Ufficio Risorse Umane dell’azienda. Non chiede nulla nella lettera che accompagna la spedizione, solo i saluti di prammatica e i propri dati di riconoscimento aziendale. Per anni, non ha ricevuto alcuna risposta ma lui non si è dato per vinto: ogni anno, a disco nuovo, effettuava la solita spedizione.
Al decimo anno, gli arriva una lettera di risposta nella quale un tal Vattelapesca lo ringrazia a nome dell’azienda per il dono ma gli ricorda anche che l’azienda non ha nel suo core business nulla che si avvicini al campo musicale.
L’operaio appende il nuovo cd nella teca del reparto, aggiunge il numero progressivo e l’anno, e torna al proprio core business lavorativo. Trascorre un anno e la sua fervida inventiva si esplica in un certo numero di pezzi con cui realizza il nuovo cd che, appena sfornato, viene spedito per posta interna al solito Ufficio Risorse Umane.
Due anni prima, al quindicesimo anno, gli arriva un’altra lettera che pronto mi mostra. Un altro Vattelapesca lo ringrazia di nuovo a nome dell’azienda per il dono, gli rimemora che l’azienda non ha nel suo core business nulla che si avvicini al campo musicale e gli suggerisce una serie di indirizzi a cui è più consono spedire il risultato del suo ingegno armonioso.
Gli anni successivi, senza demordere, a nuovo cd nuova spedizione. “Capiranno prima o poi se non…”, “Son tarlucchi” tocca a me concludere.
L’operaio non è mai stato chiamato a colloquio, nessuno si è mai sognato di effettuare un indagine per capire quanto l’operaio fosse soddisfatto nella sua specifica mansione e nel proprio ambito lavorativo.
A 17 lettere in 17 anni che ti arrivano in bottiglia, le tre letterine aziendali non spiccano per intuito e per dimostrazione di saper gestire una risorsa umana.
A me la morale del sogno, anche nel sonno, è stata subito chiara.

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